Nell’attuale fase di ripensamento dello scenario psichedelico, seguita al revival avviato oltre un decennio addietro, va sempre più emergendo l’ambito delle cosidette Psychedelic Humanities: l’intersezione tra le discipline umanistiche – innescando la riflessione culturale e l’approccio critico attraverso letteratura, arte, antropologia, sociologia, ecc. – e la scienza della coscienza e della mente, la neuro-psicologia e le relative terapie. Con l’obiettivo primario di approfondire le dimensioni informative, etiche, politiche, socio-culturali, economiche ed emotive della psichedelia in senso lato. Ambito questo in cui rientra un progetto come Sacred Plants and Fungi of the Americas, mirato a documentare sia la sacralità delle tradizioni native sia il loro significato duraturo per la comprensione della coscienza, della spiritualità e dei modi di conoscere indigeni (e non solo).
Si tratta di una sorta di articolato database che offre una serie di schede storiche, archeologiche, culturali su una varietà di “piante maestre”, dal cactus San Pedro al peyote dall’ayahuasca/yagé ai funghi psilocibinici a quelle meno note quali cohoba e vilca. Oltre alla descrizione botanica e ai dettagli dell’area geografica per ciascuna pianta, ogni voce presenta una sezione dedicata a una o più immagini artistiche associate alle piante o ai funghi in questione: dipinti, monumenti, sculture o oggetti rituali. L’aggiunta di queste opere artistiche, che spaziano dall’antico al contemporaneo, chiarisce le sfumature di rilevanza culturale e gli utili di usi di piante e funghi psicotropi che vanno oltre la semplice cronaca o il contesto storico.

Ad esempio, la “vilca”, nota anche come “cebil”, è una polvere psicoattiva sudamericana contenente i baccelli preparati dell’albero Anadenanthera colubrina, simile all’Anadenanthera peregrina, da cui si ricava la polvere psicoattiva caraibica nota come “yopo” o “cohoba”. I maggiori principi attivi sono la bufotenine e il N,N- dimethyltryptamine (DMT). La “vilca” rimanda specificamente all’antica cultura Chavin degli altipiani andini settentrionali, fiorita tra il 900 e il 200 a.C. E continua ad essere utilizzata in tutto il Sud America, particolarmente in Perù, soprattutto per la divinazione o per applicazioni terapeutiche, suggerendo così un uso continuativo di sostanze psicotrope fino ai nostri giorni.
Per i funghi Psilocybe, ne vengono dettagliate tre specie (P. mexicana, P. aztecorum, P. caerulescens), spiegando fra l’altro che le “esperienze enteogene provocate dai questi funghi non sono una serie di allucinazioni, come continuano a descriverle le politiche proibizioniste occidentali” e che il loro obiettivo è quello “risvegliare e allargare la coscienza nella ricerca della saggezza per risolvere una malattia o affrontare qualche problema”. Senza dimenticarne l’uso a scopo creativo fin che risale a epoche del lontano passato: “l’ipotesi che certi funghi fossero utilizzati per dipingere o scrivere codici, getta luce su un filone di ricerca trascurato che esplora gli usi creativi ed estetici ricchi e diversificati delle piante e dei funghi sacri da parte dei popoli nativi mesoamericani”.
Corredate da ampi riferimenti bibliografici e altre risorse multimediali, ogni scheda poggia su un approccio interdisciplinare e punta a mettere in luce il pluralismo, la diversità culturale, l’accuratezza scientifica, la reciprocità e il rispetto per le conoscenze indigene. Un progetto in aggiornamento continuo – curato dalla Harvard Divinity School e dal Center for the Study of World Religions – certamente utile per integrare le discipline umanistiche-culturali nell’odierno panorama connesso alle sostanze psicotrope, al di là di facili entusiasmi o superficialità legate alla sua (presunta) “massificazione”.